La Parola Significante
La parola-chiave di Jerome Liss fa ponte con la parola evocativa di Roberto Assagioli
La parola ha un potere.
Di per sé è sempre portatrice di una domanda, che attende una risposta.
La forza evocativa del richiamo, alla ricerca dell’interlocutore, dell’altro da sé a cui poterla rivolgere.
Jerome Liss è stato il mio maestro, nonché fondatore della Scuola di formazione di Biosistemica, presso la quale mi sono diplomata.
Tra i tanti e preziosi insegnamenti che ho ereditato da lui, il concetto di parola chiave è quello che ancora oggi è più presente nella mia pratica terapeutica.
Jerome mi ha accompagnato a stare nella relazione con sé e con l’altro, attraverso quello che lui definisce come l’Ascolto Profondo: la sofferenza condivisa si trasforma, attraversa il blocco, trova un luogo in cui sostare nello spazio che si apre tra sé e l’altro, e lì sta, si può calmare, soprattutto là dove non incontra l’offerta di consigli, interpretazioni, distrazioni non richieste.
Elaborare la sofferenza significa dare espressioni a ricordi ed emozioni dolorose, che possono emergere come onde.
Se la condivisione è profonda, la sofferenza può concludere il suo ciclo, e solo allora è possibile godere del piacere che ivi sottende.
La parola chiave si riferisce a quella parola speciale all’interno della narrazione di sé. Se l’altro la coglie e la restituisce, può essere fonte di eco per chi l’ha prodotta e questo eco può risuonare ed aprire in nuove direzioni, come per esempio un’immagine, una metafora, un sentire nel corpo, un nuovo pensiero per libera associazione di idee.
Il dolore così si libera dalla morsa rigida in cui era racchiuso, pronto a sciogliersi in un processo di trasformazione.
“Sono tornata a casa. L’ho visto steso sul divano. E ho pensato che non fa abbastanza!”
Abbastanza può esprimere il potere intrinseco della parola chiave. Per cui l’altro può chiedere: “Abbastanza, non fare abbastanza…cosa ti fa venire in mente questo concetto?”. E l’altro: “Mia madre. Venivo spesso accusata di non fare abbastanza”. E da lì può emergere il riaffiorare di una memoria, che porta finalmente a galla la radice di una rabbia intrisa di frustrazione, che parla della mia storia, prima ancora che di quella dell’altro.
La parola chiave evita dunque più inciampi, come quello della ricerca delle cause (per es. Perchè credi che lui non faccia abbastanza? Domanda che non apre a nuove visioni, ma tiene chiusi in un loop di ricerca delle colpe) o delle soluzioni (per es. Cosa pensi di fare? Quando il fare in un processo di cura arrivato a maturazione di consapevolezza, è qualcosa che viene da sé).
La parole chiave risuona in me insieme alla parola evocativa di R. Assagioli (psichiatra italiano che ha fondato la Psicosintesi), che percepiva la psiche come una pellicola fotografica, continuamente impressionata da stimoli interni ed esterni.
Le parole sono simboli che stimolano ed evocano idee, pensieri. In nome di questo può essere terapeutico scegliere una parola che esprima le qualità che desideriamo evocare e sviluppare.
Come per esempio abbondanza, gioia.
E’ possibile scriverla su un post-it e posizionarla in uno, o più punti, degli spazi abitati, in modo da “inciamparci” spesso, anche in maniera involontaria. L’immagine visuale produce un’impressione sulla nostra psiche, o più precisamente sul nostro inconscio ricettivo, lavorando su di esso.
Può essere terapeutico anche posizionarsi volontariamente di fronte alla parola evocativa, lasciando emergere idee, immagini, qualcosa di nuovo rispetto a concetti mentali schematici, rigidi, improduttivi che inquinano la mente e le emozioni.
Gli strumenti nel lavoro psicoterapeutico sono parte della realizzazione della cura. Decodificare tra le tante proposte, parla dello stile che ogni psicoterapeuta ha nell’espressione del suo lavoro prezioso di accudimento della relazione.