“Per quanto tu cammini, non incontrerai mai i confini dell’Anima,
tanto è profondo il suo logos”
Eraclito
Ho frequentato l’Università di Psicologia a Padova alla fine degli anni ’90.
Ero una giovane ragazza curiosa, all’affannosa ricerca del senso del vivere, fiduciosa che lo sforzo applicato nello studio, nel desiderio di conoscenza, fosse uno tra i più importanti strumenti di liberazione, da svariati vincoli. Ho incontrato qualche delusione lungo la strada nel merito, in particolar modo nel momento in cui sono entrata in relazione con un ambiente adulto di docenti intenti a ricercare disperatamente quella scientificità, che la medicina ha sempre negato alla psicologia.
Mi sono resa conto nel tragitto che la psicologia scientifica andava orgogliosa di essersi emancipata dalla filosofia. I test diagnostici, la statistica, i metodi di osservazione, gli studi in laboratorio sul comportamento, la misurabilità. Codici dentro cui faticavo a riconoscermi. Più procedevo nella formazione classica, più si aprivano domande in me.
La scienza stessa sa che il suo limite è nel non poter aver accesso a verità assolute, bensì a risultati specifici prodotti da premesse formulate dagli stessi esseri umani -limitati-.
Vedere il mondo in modo oggettivo è impossibile. Lo dice la filosofia, ma lo dice la scienza stessa: nel 2020 è stata pubblicata uno studio di un team di ricercatori della Johns Hopkins University che ha concluso, dopo una serie di esperimenti, che una visione realmente oggettiva del mondo è impossibile, almeno per noi esseri umani.
Perchè dunque questo accanimento nel -descrivere- a discapito del -sentire-? Forse perchè il descrivere, il creare categorie, il definire dà l’illusione di poter imbrigliare l’incomprensibile complessità umana?
Come ci ricorda Umberto Galimberti, se la psicologia vuole diventare scienza, deve oggettivare; ma se oggettiva, perde il soggetto. Non ha più a che fare col soggetto. La psichiatria, con i suoi DSM (sistemi diagnostici descrittivi che classificano i disturbi mentali), ha fatto un’operazione oggettivante, ma il soggetto non lo vedi più. Vedi l’etichetta che lo definisce, ma non vedi la stra-ordinarietà del viaggio che la persona sta compiendo.
Non va negato lo strumento, ma va riconosciuto il suo limite.
Posso arrivare a spiegare che cos’è un disturbo di personalità, posso arrivare a descriverlo, ma questo non è sufficiente a comprenderlo.
Comprendere una persona che soffre di un dolore, descrivibile anche con un termine diagnostico-scientifico, significa cum (prefisso latino)-prenderla ovvero abbracciarla in tutta la sua interezza, in tutta la sua complessità. Per cui l’espressione di quel dolore sarà qualcosa di unico, impossibile da definire rigidamente. Qualcosa che lo differenzia da tutto il resto.
La radice del termine psicologia è psychè, dal greco ψυχή –soffio che anima e vivifica un corpo–. Con la nascita della psicologia scientifica nell’800, la radice filosofica della ricerca fu rinnegata, così come il termine -anima- in quanto gravido di implicanze filosofiche, metafisiche, religiose, spirituali. Delle -psiche- si è fatto un termine che definisce i comportamenti e i funzionamenti mentali. Si è presa distanza proprio da ciò che ha generato questa stessa scienza, definita umana.
L’Anima è materia dei poeti, dei ricercatori visionari, di coloro che hanno fede in un significato che trascende la bidimensionalità del vivere secondo morale giusto-sbagliato, sano-malato. E’ materia anche di psicoterapeuti che, come me, scelgono di prendersi cura della persona accompagnandola nel desiderio di cogliere quel Senso (ai traumi, alle ferite, ai tradimenti, alla morte, al male) che trascende la razionale comprensione, per aprirsi all’accettazione di un destino autentico, in cui si smette di essere vittime, e si incomincia ad essere i co-costruttori del proprio Esistere.